Johnny: ‹ Johnny un ragazzo tranquillo di tredici anni, era diventato una specie di “gioco umano” per alcuni dei suoi compagni di classe. Questi lo tormentavano, gli rubavano i soldi, lo costringevano ad ingoiare erbacce e a bere latte misto a detersivo, lo picchiavano nel bagno, gli legavano delle stringhe intorno al collo e lo portavano in giro come un cagnolino. Quando i torturatori di Johnny vennero interrogati sulle loro prepotenze, affermarono che perseguitavano la vittima perché la cosa, dissero testualmente, “era divertente” ›.
Le ricerche sullo sviluppo umano si interessano ormai da tempo, allo studio delle relazioni tra pari e al tema dell’aggressività fra questi. Gli studi in campo scientifico hanno sottolineato l’importanza per bambini e adolescenti del legame amicale durante l’arco della vita, prendendo atto dell’importanza che può avere l’essere accettati o rifiutati dai propri compagni di classe. Allo stesso modo gli studi portati avanti sull’aggressività hanno riscontrato un apparente impulso all’attacco fra coetanei, arrivando anche a descriverne cause, forme e conseguenze a seconda dell’età, del genere e del contesto.
Le ricerche sul bullismo hanno beneficiato dei risultati provenienti da entrambe queste aree, ma per molto tempo il bullismo non ha ricevuto un’adeguata attenzione scientifica tale da poterne permettere un’ approfondita conoscenza (Berger, 2006).
Storicamente, infatti il bullismo non era considerato un problema che necessitava di attenzione, in quanto accettato e riconosciuto come una manifestazione normale e fondamentale del periodo di sviluppo infantile e adolescenziale (Limber e Small, 2003). Negli ultimi tre decenni, tuttavia, quest’ idea è cambiata e attualmente il fenomeno del bullismo è visto e trattato come un serio problema che giustifica l’attenzione a cui è sottoposto.
In particolare la nascita di interesse da parte degli studiosi verso questo fenomeno ha inizio nel 1982 quando due studenti norvegesi si suicidano, non essendo più in grado di sopportare le ripetute offese inflitte da alcuni loro compagni. Per commissione del governo norvegese Dan Olweus, allora professore di Psicologia all’Università di Bergen in Norvegia, iniziò a studiare questo fenomeno scoprendo come un notevole numero di studenti norvegesi, circa il 15.0% , fosse coinvolto in atti di bullismo (Olweus, 1993).
Il termine “bullismo” deriva dalla traduzione letterale della parola inglese “bullying” e viene usato per connotare il fenomeno delle prepotenze tra pari in un contesto di gruppo. Tradurre in italiano il termine “bullying” ha comportato delle difficoltà, poiché il termine inglese “to bully” significa proprio usare prepotenza. In italiano non traduca esattamente questo concetto, pertanto si è dovuto coniare un nuovo termine per indicare questo fenomeno, appunto “bullismo” (Civita 2006). La parola usata nei paesi del Nord Europa (Norvegia, Danimarca, Svezia, Finlandia) per riferirsi al bullismo è “mobbing” o “mobbining”, parola che nel 1973 viene usata per la prima volta da Heinemann per identificare il fenomeno, la radice della parola originale inglese “mob” si riferisce ad un gruppo di persone, implicato in azioni moleste, ed è usato anche per indicare una persona che critica, molesta, o picchia un’altra (Heinemann, 1972). E’ possibile quindi includere nel concetto di “mobbing” o bullismo sia le situazioni in cui il singolo individuo molesta un altro, sia quelle in cui ad essere responsabile della molestia è un gruppo (Olweus,1993).
In queste prime definizioni l’enfasi viene posta particolarmente sulle modalità fisiche e verbali, solo successivamente si è riconosciuta l’importanza delle modalità di prevaricazione indirette e psicologicheesiste .
Un primo riconoscimento di questi aspetti si può rintracciare nella definizione di Olweus (1978) secondo cui: ‹ Il bullo è un individuo, per lo più maschio, che spesso opprime e molesta i compagni, i bersagli di queste azioni possono essere ragazzi e ragazze, l’attacco può essere sia fisico che mentale ›. Le definizioni che si sono succedute poi negli anni hanno aggiunto ulteriori particolari, ad esempio Björkqvist e collaboratori (1982) hanno enfatizzato la disparità di potere e la natura sociale del bullismo; Besag (1989) ha sottolineato la sistematicità e la durata nel tempo dell’azione aggressiva ed inoltre anche l’intenzionalità nel causare il danno alla vittima.
Il bullismo può essere perpetrato da un singolo individuo, il bullo, o da un gruppo. A sua volta il bersaglio del bullismo può essere un singolo individuo, la vittima, o un gruppo; in ambito scolastico è comunque, in genere, uno studente. Vi è poi un’altra parte di studenti, né bulli né vittime, che possono essere implicati in modo diverso, ovvero come spettatori, testimoni degli atti di bullismo, ma non direttamente coinvolti e che solitamente non interferiscono nelle azioni di bullismo anche per paura di diventare possibili vittime (Campbell, 2005).
La scuola sembra essere il luogo in cui vengono perpetrate maggiormente le prepotenze; dai primi lavori di Olweus (1983), condotti su oltre 130.000 ragazzi norvegesi tra gli 8 e i 16 anni, l’autore trovò come il 15.0% degli studenti era coinvolto, come attore o vittima, in episodi di prepotenza a scuola. Successivi studi hanno confermato l’incidenza e la diffusione di questo fenomeno nelle scuole. Nel contesto italiano i primi dati raccolti negli anni ’90, con un campione di 1.379 alunni tra gli 8 e i 14 anni indicano come il 42.0% di alunni nelle scuole primarie e il 28.0% nelle scuole secondarie di primo grado riferiscano di aver subito prepotenze (Menesini, 2003). Questi studi permettono quindi di evidenziare come la scuola possa diventare possibile luogo di persecuzione e violenza (Petrone e Troiano, 2008). Per Olweus (1993): ‹ Uno studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto ripetutamente nel corso del tempo alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o più compagni ›. Lawson (2001) definisce il bullismo come: ‹ Un’interazione in cui un individuo o un gruppo di individui più dominanti causano intenzionalmente sofferenze a un individuo o un gruppo di individui meno dominanti ›. Anche Farrington (1993) ha fornito una sua spiegazione del fenomeno definendolo:
‹ Un’ azione negativa che può essere sia fisica che verbale, con intenti ostili, che vengono ripetuti nel tempo, e prevedono anche uno squilibrio di potere. Possono inoltre essere coinvolti più perpetratori ed anche più vittime ›. Whitney e Smith (1993) hanno successivamente sviluppato una nuova definizione, traducendo e modificando quella originaria di Olweus, da questa versione è nata quella italiana (Genta et al., 1996) secondo cui: ‹ Diciamo che un ragazzo subisce delle prepotenze quando un altro ragazzo, o un gruppo di ragazzi gli dicono cose cattive e spiacevoli. E’ sempre prepotenza quando un ragazzo riceve colpi, pugni, calci e minacce, quando viene rinchiuso in una stanza, riceve bigliettini con offese e parolacce, quando nessuno gli rivolge mai la parola e altre cose di questo genere. Questi fatti capitano spesso e chi li subisce non riesce a difendersi. Si tratta sempre di prepotenze anche quando un ragazzo viene preso in giro ripetutamente e con cattiveria. Non si tratta invece di prepotenze quando due ragazzi, all’incirca della stessa forza, litigano tra loro e fanno la lotta›.