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Intenzionalità, Ripetizione, Squilibrio di potere: tre criteri che caratterizzano il Bullismo

Le definizioni di bullismo descritte nell’articolo precedente pongono l’accento su caratteristiche significative e peculiari, che permettono di distinguere il fenomeno del bullismo da altri fenomeni di diversa natura, come comportamenti non aggressivi (giochi quasi aggressivi, ritualizzati con reciprocità di ruoli, lotte per gioco) o da vere e proprie attività criminali ed antisociali (attacchi con armi, abusi […]

Le definizioni di bullismo descritte nell’articolo precedente pongono l’accento su caratteristiche significative e peculiari, che permettono di distinguere il fenomeno del bullismo da altri fenomeni di diversa natura, come comportamenti non aggressivi (giochi quasi aggressivi, ritualizzati con reciprocità di ruoli, lotte per gioco) o da vere e proprie attività criminali ed antisociali (attacchi con armi, abusi sessuali, minacce gravi.

Il bullismo ha una natura multidimensionale, indica infatti lo squilibrio di potere presente nel rapporto tra colui che pone in atto la prevaricazione, e colui che la subisce, nel bullismo deve perciò esistere un’asimmetria nella relazione, poiché se due studenti con simile forza fisica o psicologica litigano o discutono, non si ha bullismo. Perché si possa parlare di bullismo è necessario che ci si riferisca ad una violenza fisica, verbale o psicologica, ripetuta o protratta nel tempo, in cui vi è uno squilibrio tra prevaricatore e vittima (Petrone e Troiano, 2008).

I tre criteri che caratterizzano questo fenomeno sono quindi:

  1. intenzionalità;
  2. ripetizione;
  3. squilibrio di potere.

Il primo di questi criteri fa riferimento all’intenzionalità, cioè la messa in atto di comportamenti fisici, verbali o psicologici con lo scopo di offendere l’altro e di arrecargli danno o disagio.

I bulli, sono raffigurati come ragazzi per lo più maschi, più forti fisicamente o psicologicamente rispetto ai compagni. Presentano inoltre un’elevata autostima e un atteggiamento favorevole verso la violenza (Menesini, 2000); utilizzano comportamenti aggressivi in maniera intenzionale per ottenere ciò che desiderano, assumendo poi per giustificarsi atteggiamenti di indifferenza e scarsa sensibilità morale nei confronti della vittima (Menesini et al., 1999). Il bullismo si esplica quindi in una modalità proattiva, ovvero senza provocazione da parte del partner ed è rivolta a perseguire il fine dell’aggressore (Coie et al.,1991). Gli stessi autori hanno ulteriormente suddiviso l’aggressività proattiva in due sottoclassi: l’aggressività strumentale, finalizzata al possesso di un oggetto; ed il bullismo, in cui l’aggressività intenzionalmente manifestata, trova la sua motivazione nell’affermazione di dominanza interpersonale che conseguentemente prevede l’offendere e l’arrecare danno nei confronti degli altri. Anche altri autori come Sharps e Smith (1994) hanno messo in luce varie forme di bullismo a seconda del tipo e dell’intensità del comportamento aggressivo: fisico, caratterizzato da botte, spinte o prepotenze di tipo fisico; verbale, rappresentato da ingiurie, ricatti, intimidazioni, vessazioni, insulti; e indiretto, come la manipolazione sociale, ovvero l’uso di altri soggetti come mezzi per attaccare la vittima, i pettegolezzi fastidiosi e offensivi e l’esclusione sistematica della persona dalla vita di gruppo. L’uso di queste diverse modalità di attacco si differenzia non solo in base al singolo soggetto o al genere, ma anche in base all’età infatti al crescere dell’età diminuiscono le modalità fisiche e aumentano quelle verbali e indirette (Menesini, 2000).

Il secondo criterio riguarda la persistenza, infatti sebbene anche un singolo episodio possa essere considerato una forma di bullismo, l’interazione bullo-vittima è caratterizzata dalla ripetitività di comportamenti di prepotenza protratti nel tempo (Olweus, 1999; Menesini, 2000). Questo bisogno da parte del bullo di dominare ed aggredire la vittima, fa si che questi comportamenti possano protrarsi nel tempo, e quindi una vittima subisca atti di bullismo per più tempo e più volte; inoltre alcuni studi hanno enfatizzato la natura di gruppo del fenomeno e gli effetti del rinforzo reciproco tra partecipanti. Gli studi di Craig e Pepler (1997) hanno osservato come l’85.0% degli episodi di bullismo avviene in presenza dei coetanei, i quali possono assumere ruoli diversi all’interno del gruppo, ponendosi dalla parte del bullo, intervenendo a sostegno della vittima o rimanendo semplici osservatori. La dominanza del bullo e la ripetitività delle sue azioni sembrano perciò essere rafforzate dall’attenzione e dal supporto dei sostenitori, dall’allineamento degli aiutanti, dalla condiscendenza di coloro che hanno paura e dalla mancanza di opposizione della maggioranza silenziosa (Menesini, 2003) ed in più molte vittime, invece di reagire, tendono ad accettare la propria sorte negando il problema, cercando di annullare la propria sofferenza emotiva (Berdondini e Dondi, 1999) o mettendo in atto comportamenti di auto colpevolizzazione.

Questi dati, riferiti sia al comportamento dei bulli, ma anche delle vittime, necessitano di una riflessione sulle possibili conseguenze a breve e lungo termine; infatti i ragazzi che compiono prepotenze manifestano maggiori problemi scolastici (Nansel et al. 2001) e incorrono in comportamenti devianti e antisociali in età adulta (Menesini, 2003). Le vittime di bullismo manifestano significative difficoltà di relazione con i compagni di classe, ed anche di performance scolastiche (Holt et al., 2007), con possibili problemi a lungo termine di ansia ed insicurezza (Olweus, 1993).

In terzo luogo, tale interazione è asimmetrica, fondata sullo squilibrio e sulla disuguaglianza di forza e potere tra bullo che agisce e la vittima che non è in grado di difendersi (Olweus, 1999; Menesini, 2000). Infatti, sebbene il fenomeno del bullismo si manifesti nelle relazioni tra pari, ovvero tra coetanei, vi è un sostanziale squilibrio di forza e potere tra il bullo e la vittima, che spesso, proprio per questa ragione non è in grado di difendersi. Anche per questo motivo, si registra un maggior coinvolgimento dei maschi nel ruolo di bullo a tutti i livelli di età (Olweus, 1993; Whitney e Smith, 1993; Genta et al., 1996; Smith et al., 1999). Questo dato non deve però indurre nel ritenere che le femmine non siano coinvolte in fenomeni di bullismo, o che possano essere coinvolte solo nel ruolo di vittime; difatti come già accennato, il comportamento di attacco può essere perpetrato con due principali modalità, fisiche o verbali di tipo diretto (botte, calci, pugni, offese e minacce) o con modalità di tipo psicologico e indiretto (esclusione o diffamazione) (Olweus, 1999; Menesini, 2000). Sin dai primi studi condotti da Olweus (1983) emerge come le femmine presentino maggiormente forme di bullismo, di tipo indiretto rispetto a quelle di bullismo diretto, specialmente fisico, nel quale invece, sono più frequentemente coinvolti i maschi. Anche Björkqvist (1994) in uno studio successivo afferma come le prepotenze di tipo diretto, verbale e fisico, si manifestano con più frequenza nei maschi mentre quelle indirette caratterizzano spesso le relazioni tra femmine.