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Meccanismi psicologici sottesi al gioco d’azzardo

Il gioco d’azzardo è stato analizzato da varie angolazioni e ciascun approccio psicologico ne ha fornito una spiegazione secondo il proprio campo d’interesse, disponendo di un particolare bagaglio di conoscenze, senza però arrivare ad una visione integrata e condivisa del problema.

Vediamo ora di far luce sui meccanismi psicologici che favoriscono l’esordio ed il mantenimento del comportamento di gioco.

 Il punto di vista psicoanalitico de Gioco d’Azzardo

Freud è uno dei primi autori che si occupa di gioco d’azzardo dal punto di vista psicopatologico. Nella sua opera Dostoevskij e il parricidio (1928), egli prende come pretesto l’analisi del caso di questo scrittore per dare la sua interpretazione del gioco d’azzardo. Come è noto Dostoevskij fu un grande giocatore d’azzardo, tanto che scrisse il romanzo Il giocatore (1866) proprio per far fronte ai debiti di gioco. Freud attribuisce la causa di questa coazione a giocare ad una nevrosi isterica, confermata anche dagli attacchi epilettici di cui lo scrittore soffriva, la cui funzione consiste “nell’eliminare per via somatica masse di eccitamento che il soggetto non riesce a padroneggiare psichicamente” (Freud, 1928). La nevrosi sarebbe insorta in seguito ad un trauma: il padre di Dostoevskij viene ucciso quando il figlio era ancora diciottenne, egli allora si identifica con l’assassino e da qui sviluppa un grande senso di colpa.  Freud spiega il parricidio con il complesso di Edipo: il figlio vorrebbe possedere la madre e perciò desidera uccidere il padre, ma ha paura dell’evirazione alla quale sarebbe sottoposto come punizione, così rinuncia alla madre e relega tale fantasia nell’inconscio insieme al senso di colpa. Nel caso di Dostoevskij, la coazione a giocare diventa un’autopunizione che il soggetto si infligge per alleviare questa colpa (“il senso di colpa si era creato un sostituto palpabile in un carico di debiti”, pag.534), non gioca infatti per vincere denaro, ma solo per giocare. Nei momenti di astinenza da questa attività, la sua capacità di lavorare viene meno, mentre grazie al gioco d’azzardo il suo senso di colpa si allevia e l’inibizione scompare, riuscendo così a scrivere senza problemi.

Nello stesso saggio Freud accosta il gioco d’azzardo all’onanismo: “Il ‘vizio’ dell’onanismo è sostituito da quello del giuoco, e l’attività appassionata delle mani posta in così grande risalto è davvero rivelatrice sotto questo profilo (…) quando i bambini manipolano i loro genitali con le mani, si usa dire appunto che ‘giocano’ con essi” (ibidem, pag.537). Continua inoltre mettendo in luce le caratteristiche che accomunano le due attività: l’irresistibilità della tentazione, i proponimenti di non farlo più che non vengono mai mantenuti, il “piacere che stordisce e la cattiva coscienza che ci sta rovinando” (ibidem, pag. 537).

Dopo Freud è Bergler (1957) a trattare il gioco d’azzardo ancora secondo l’ottica psicoanalitica: egli considera il masochismo il meccanismo principale sotteso a tale fenomeno. Il giocatore desidera inconsciamente di perdere ed è per questo che persevera nella sua attività autodistruttiva. Bergler  sostiene che, come il bambino proietta l’amore per se stesso sui genitori, così l’adulto lo proietta sul Destino. La “tensione piacevolmente penosa” che si prova mentre si aspetta il suo verdetto, assomiglia all’attesa della punizione del genitore dopo che si è commesso un misfatto. Il soggetto cerca di sfidare il Destino e di controllarlo ma da questo deriva solo un senso di colpa che si placherà solo con l’autopunizione: la continuazione del gioco con la speranza inconscia di perdere.

L’interpretazione psicoanalitica, seppur molto affascinante, ha però un carattere teorico e speculativo a differenza delle concettualizzazioni  che posteriormente vi sono seguite, basate su ricerche empiriche.

L’illusione di controllo e l’ottica cognitivista di un Giocatore d’Azzardo

 Alcuni autori, nel cercare di capire i meccanismi che inducono alla perseveranza nel gioco d’azzardo, fanno appello al concetto di illusione di controllo (Langer, 1975). Esso è definito come un’aspettativa di successo personale eccessivamente alta rispetto alle probabilità oggettive. Langer è il primo ad occuparsi di questo fenomeno e a dimostrarne l’esistenza in alcuni soggetti. Nelle situazioni in cui è richiesta abilità c’è un legame causale tra comportamento e risultato, il successo è quindi sotto il controllo del soggetto. Al contrario, nelle situazioni in cui è la fortuna ad avere il ruolo principale il soggetto non può controllare gli eventi, il risultato non è influenzato dalle sue azioni. Questa differenza, seppur elementare, non è però da tutti riconosciuta, tanto che alcuni individui percepiscono il coinvolgimento dell’abilità anche laddove è la fortuna a decidere le sorti, questo è il caso dei giocatori d’azzardo. Langer trova che l’illusione di controllo si manifesta maggiormente in presenza di quattro fattori relati all’abilità: la competizione, la scelta, la familiarità col compito ed il coinvolgimento personale passivo o attivo. Gli effetti di ogni fattore sono provati con un esperimento; per esempio nel caso della competizione, Langer dimostra che anche in eventi aleatori in cui c’è competizione, è facile illudersi di poter controllare il risultato in base alle caratteristiche dell’avversario, come succede nelle dispute di abilità. In un altro esperimento due gruppi di persone vengono invitati a comprare un biglietto della lotteria, ma mentre il primo gruppo sceglie il biglietto, al secondo non viene data questa opportunità. Quando lo sperimentatore chiede ai soggetti a quale prezzo sarebbero disposti a rivendere il proprio biglietto, scopre che coloro che l’hanno scelto chiedono di più rispetto a agli altri, come se il fatto di averlo scelto personalmente avesse aumentato la probabilità che fosse quello vincente.

In un’altra ricerca Langer e Roth (1975) includono tra i fattori che favoriscono l’illusione di controllo la sequenza dei risultati: successi o insuccessi costanti e consecutivi fanno pensare che il risultato è controllabile e dipende dall’abilità dell’uno o dell’altro avversario, mentre una sequenza alternata non sembra dipendere dalla capacità dei contendenti, ma piuttosto dal caso cosicché la situazione non può essere controllata.

L’illusione di controllo è una distorsione cognitiva, una griglia erronea che i giocatori d’azzardo assumono per interpretare la realtà. Essi pensano così di essere onnipotenti, sentono di poter controllare situazioni incontrollabili. E’ l’esatto contrario della Learned Helplessness (Seligman, 1975), lo scollamento totale tra azione e risultato, quando il soggetto non percepisce più di poter influenzare gli eventi; l’illusione di controllo porta invece all’errore opposto, credere che ciò che avviene sia sempre dipendente dalla nostra capacità.

Il giocatore d’azzardo commette quindi degli errori di ragionamento, valuta i risultati degli eventi in maniera distorta. Gilovich (1983) spiega così perché i giocatori continuano a giocare nonostante i persistenti fallimenti. Essi sottovalutano i fallimenti ed esaltano i successi, spendono più tempo per giustificare le perdite e le trasformano in ‘quasi vincite’ (near miss), come a dire: “Non ho vinto ma questa volta ci sono andato vicino, la volta successiva vincerò sicuramente”. Così acquistano fiducia nel successo e vanno avanti trascurando il peso del fallimento.

La presenza di pensieri irrazionali nei giocatori d’azzardo è stato riconosciuta anche da Griffiths (1994), il quale utilizza per la sua ricerca la tecnica dei pensieri a voce alta. Egli registra le verbalizzazioni di giocatori regolari e non regolari durante una sessione di gioco alle slot machine, concludendo che i giocatori regolari producono una percentuale maggiore di pensieri irrazionali (14%) rispetto a coloro che non giocano spesso (2.5 %). Soprattutto i giocatori regolari personificano la macchina (“A questa macchina non piaccio”, “oggi non è di buon umore”), le parlano come se fosse un ‘amico elettronico’ (“Andiamo, vuoi pagarmi o no ?”) e le imprecano contro (“Bastarda!”). Tutto ciò accade in particolare con la slot machine più familiare, davanti alla quale hanno trascorso più tempo.

Da quanto detto si capisce che i cognitivisti non pretendono di rintracciare le cause del comportamento di gioco nella personalità del giocatore, ma cercano di comprendere i bias cognitivi attraverso i quali la realtà viene interpretata. Griffiths, nell’articolo succitato riassume le principali distorsioni cognitive, tra cui troviamo:

  • L’illusione di controllo.
  • Attribuzioni flessibili, giustificazioni con le quali si cerca di spiegare i fallimenti imputandoli a fattori esterni, mentre i successi vengono attribuiti alla capacità personale. In questa categoria l’autore include anche i tentativi di sottovalutare gli insuccessi e le “quasi vincite” di Gilovich (1983).
  • Rappresentatività, significa che il caso particolare rappresenta sempre la regola generale, cioè se si chiede ad un soggetto di immaginare una sequenza casuale di testa o croce, egli tenderà a produrre una proporzione vicina al 50%, come predicono le leggi del caso. Con questo si spiega anche un’altra distorsione cognitiva, la “fallacia del giocatore” (Cohen, 1972), che consiste nel credere che più tempo passa senza vincere più la vincita si avvicina: “ Più sono stato sfortunato, più presto arriverà la fortuna”, “Più tempo passa dall’ultima uscita di un numero, più aumentano le probabilità che esca”.
  • Pregiudizio della disponibilità, si ha quando un soggetto, per valutare la probabilità di vincere, si basa sulla facilità con cui esempi rilevanti gli vengono alla mente. La disposizione delle slot machines nei casino si fonda questo bias cognitivo: esse sono infatti raccolte l’una vicina all’altra in grandi gruppi affinché il suono della vincita e delle monete che cadono venga udito di continuo, dando così l’impressione che ciò accade di frequente quando invece le vincite sono rare.
  • Correlazioni illusorie, una sorta di comportamenti superstiziosi in cui si ritiene che delle variabili siano correlate, anche se in realtà non lo sono. Un esempio è il tirare i dadi delicatamente quando si desidera un numero basso e lanciarli invece con più vigore per far uscire un numero alto.
  • Fissazione sulla frequenza assoluta, significa che i soggetti misurano i successi in base a quanto vincono, ma senza considerare quanto perdono, utilizzando una frequenza assoluta delle vincite. E’ tipico del giocatore esultare per avere vinto, anche se tale somma non arriva a coprire le perdite subite fino ad allora.

Queste sono solamente alcune delle distorsioni cognitive che il giocatore utilizza per continuare a giocare d’azzardo, ma in realtà se ne potrebbero aggiungere molte altre, anche perché ognuno possiede le proprie personali superstizioni ed i propri rituali propiziatori.

Chau e Phillips (1995) conducono una ricerca sull’assunzione di rischio utilizzando un campione di giocatori di Blackjack simulato al computer. Gli autori trovano che i soggetti non seguono il calcolo delle probabilità per cercare di ottimizzare il proprio gioco, ma prendono decisioni sulla base di pensieri irrazionali. Essi anticipano il risultato in base a quello precedente, tanto che dopo una vincita aumentano l’ammontare della scommessa, ma questo dipende anche da un’altra variabile: se infatti hanno il controllo delle carte sentono che il risultato dipende dalla loro capacità, altrimenti ne attribuiscono le cause alla fortuna. In questo caso il soggetto regolerà le sue puntate per cercare di sfruttare al massimo il momento fortunato perciò a seguito di una vincita scommetterà una somma maggiore, mentre dopo una perdita ridurrà la puntata. Nel secondo caso gli aggiustamenti sulla scommessa saranno più modesti. Questo indica che i soggetti, quando percepiscono di avere il controllo attribuiscono a se stessi la responsabilità dell’esito del gioco, quando invece non lo hanno invocano fattori esterni.

La ricerca di sensazioni di un giocatore d’Azzardo

Un altro filone di ricerca ipotizza che la causa del gioco d’azzardo sia riconducibile alla ricerca di forti sensazioni. Zuckerman (1983) è stato il primo a notare che alcune persone con un livello di attivazione fisiologica (arousal) più basso hanno bisogno di stimolazioni più forti per raggiungere un livello di arousal ottimale. Questi soggetti pertanto amano il rischio e tutte quelle situazioni che provocano sensazioni intense ed insolite come assumere sostanze stupefacenti, giocare d’azzardo o praticare sport estremi, inoltre non tollerano la noia, gli eventi ripetitivi e diventano irrequieti in caso di scarsa stimolazione. Al fine di misurare questa tendenza ed individuare i ‘ricercatori di sensazioni’, Zuckerman ha elaborato una Scala della Ricerca di Sensazioni (Sensation Seeking Scale), composta da item tipo: “Mi piacerebbe un lavoro che comporta molti viaggi/ Preferirei un lavoro sempre nella stessa sede”; “Mi piacerebbe provare il paracadutismo/ Non vorrei mai buttarmi giù da un aereo, con o senza paracadute”; “Entro nell’acqua fredda gradualmente, per abituarmi/ Mi piace tuffarmi in mare o in una piscina fredda”. Zuckerman considera la ricerca di sensazioni un tratto di personalità. Attraverso studi condotti su gemelli monozigoti conclude infatti che la sua variabilità è attribuibile all’ereditarietà per una frazione compresa tra il 50% e il 66%. L’autore scopre inoltre un’influenza su questo tratto da parte di alcuni neurotrasmettitori e di ormoni sessuali. Non sottovaluta comunque  il ruolo che riveste l’ambiente sociale nel plasmare un tratto del comportamento, anche se gli è impossibile districare gli effetti dell’interazione tra ambiente ed ereditarietà genetica, dal momento che non si può allevare un individuo in condizioni di isolamento.

Il gioco d’azzardo produce eccitazione e infatti molte ricerche, utilizzando la misura del battito cardiaco come indicatore,  hanno provato che il livello di arousal subisce un innalzamento durante l’attività di gioco. Questa importante scoperta è stata utilizzata dal modello comportamentista per spiegare la nascita e il mantenimento della dipendenza da gioco: Anderson e Brown (1984) sostengono che questa condizione di maggior attivazione fisiologica associata al gioco d’azzardo può funzionare come il condizionamento classico di Pavlov e perciò favorire l’instaurarsi della dipendenza. Anche Dickerson (1979) ha precedentemente assimilato tale dipendenza ad un condizionamento, ma di tipo strumentale, in cui l’arousal svolge la funzione di rinforzo: i giocatori diventano dipendenti dalla loro stessa attivazione e dai suoi effetti fisici e psicologici. Con questo meccanismo si è spiegato anche il fenomeno della tolleranza trattata nel capitolo precedente: il livello di arousal cresce sia nei giocatori regolari, sia nei non regolari durante il gioco, ma se nei primi esso decresce rapidamente alla fine della sessione, nei secondi rimane per un po’ stabile. Perciò i giocatori regolari sono portati a rigiocare per ristabilire il livello di attivazione desiderato. Tornando alla ricerca di Anderson e Brown (1984) possiamo affermare che essa rappresenta un momento importante perché dimostra che un alto punteggio alla Sensation Seeking Scale (SSS) è correlato alla scommessa di somme più elevate di denaro, supportando così la tesi di Zuckerman secondo il quale i ricercatori di sensazioni sono più propensi ad assumersi dei rischi.

Anche il modello cognitivo-comportamentale riconosce lo stretto legame tra variazioni di arousal e dipendenza da gioco, ma pone maggiormente l’accento sui meccanismi cognitivi che mediano i due fenomeni. In altre parole l’eccitazione che deriva da una sessione di gioco serve sì da rinforzo per la reiterazione dell’esperienza, ma in realtà è determinante il significato che viene attribuito all’esperienza stessa. Sharpe et al (1995) dimostrano che l’innalzamento dell’arousal nel gioco d’azzardo è cognitivamente mediato, attraverso una ricerca in cui i giocatori vengono sottoposti a varie condizioni sperimentali. I risultati riportano che i giocatori subiscono una variazione nel livello di attivazione solo quando giocano in assenza di distrazioni; assistono alla presentazione di stimoli correlati al gioco, come una videocassetta sulle corse dei cavalli, anche senza passare all’attuazione del comportamento; rievocano un’esperienza di gioco in cui sono stati direttamente coinvolti. Al contrario nelle situazioni in cui i processi cognitivi non possono intervenire, come nel caso in cui il giocatore viene distratto durante l’esecuzione del compito, l’effetto ricercato non si verifica.

Coventry e Constable (1999) apportano un altro contributo a tale modello. Essi conducono una ricerca su donne giocatrici di slot machines da cui emerge che il gioco da solo non è per sé stesso significativamente eccitante, ma è il fattore ‘vincita’ che provoca incrementi nel battito cardiaco e quindi maggiore attivazione fisiologica. Inoltre, contrariamente a Zuckerman, trovano una correlazione negativa tra alti punteggi alla SSS e frequenza di gioco. Questo risultato può comunque essere spiegato prendendo in considerazione il tipo di gioco. Potrebbe essere che le slot machines, come anche le corse dei cavalli non siano giochi adatti a coloro che ricercano forti sensazioni, i quali sarebbero più propensi verso attività più eccitanti e rischiose. Questa probabile spiegazione trova supporto nella distinzione operata da Guerreschi tra i “giocatori d’azione” e i “giocatori per fuga”: per i primi il gioco è la cosa più importante nella vita perché li mette in ‘azione’, attraverso di esso ricercano l’attivazione; la seconda categoria è rappresentata da coloro che giocano per alleviare sentimenti negativi come ansia, depressione, noia e tentano così di sfuggire ai loro problemi. L’autore sostiene che principalmente le donne tendono a diventare giocatrici per fuga e preferiscono giochi quali il bingo, il lotto e simili, le slot machine ed i videopocker. Questi in particolare assorbono il soggetto completamente, perché deve concentrarsi su quale pulsante premere, in quale momento, etc. La sua attenzione quindi si sposta dai problemi che l’angosciano, ai quali deve far fronte nella vita reale.

Da qui possiamo dedurre che attribuire ad una sola causa il comportamento di gioco risulta fuorviante. Già nel 1970 Moran aveva individuato l’intrecciarsi di fattori costituzionali, quali personalità insicure, immature o psicopatiche e fattori ambientali come la disponibilità di denaro o l’accettazione del comportamento da parte del sistema sociale, nella genesi del gioco d’azzardo patologico. Da questa interazione l’autore fa derivare cinque profili clinici (Lavanco, 2001):

  1. Il “gioco subculturale”, comprensibile nel contesto sociale del soggetto, dipendente dalle sue origini sociali e familiari;
  2. Il “gioco nevrotico”, che scaturisce come reazione a situazioni stressanti o problemi emozionali, per cui funziona come sollievo alla tensione che si accumula;
  3. Il “gioco impulsivo”, che si accompagna alla perdita del controllo e produce danni sociali ed economici;
  4. Il “gioco psicopatico”, che rappresenta solo un aspetto del disturbo di personalità da cui è affetto il soggetto;
  5. Il “gioco sintomatico”, che può essere un sintomo derivante da una malattia mentale come la depressione.

Tra queste categorie risulta rilevante quella del “gioco impulsivo” perché ha aperto la strada all’idea di un legame tra gioco d’azzardo ed impulsività, che ha impegnato molti autori nel tentativo di darne conferma attraverso la ricerca empirica.

Gioco d’azzardo ed impulsività

La classificazione del gioco d’azzardo patologico nel DSM IV, sotto la categoria del Disturbo del Controllo degli Impulsi  è supportata da tutta la mole di ricerche condotte sul rapporto tra gioco ed impulsività. Non si è ancora però arrivati a spiegare di che natura sia questo rapporto e come funzioni, se cioè l’impulsività sia legata direttamente al comportamento di gioco o seppure sia mediata dalla presenza di una psicopatia sottostante. Senza dubbio tra i due fenomeni ci sono molte somiglianze, Vitaro et al. (1999) ne mettono in luce le principali. Le caratteristiche del gioco d’azzardo patologico possono essere così riassunte:

  1. Perseveranza: i giocatori vanno avanti per anni a giocare, non si fermano né davanti alle vittorie, né davanti alle sconfitte.
  2. Intolleranza verso il fallimento: la filosofia del chasing (Lesieur 1979), indica che il giocatore non sopporta di perdere per cui si lancia in una rincorsa attraverso la quale spera di recuperare il denaro perduto. Inoltre tutte le varie distorsioni cognitive e le razionalizzazioni alle quali il soggetto ricorre possono essere utili per negare la sconfitta, che come abbiamo visto, il giocatore tende sempre a sottovalutare e a giustificare.
  3. Disinteresse per le conseguenze: il giocatore è talmente assorbito dal gioco e dal bisogno di trovare denaro per andare avanti, che non si preoccupa delle conseguenze delle proprie azioni né dal punto di vista legale, né relazionale e familiare.
  4. Eccessiva preoccupazione nel gioco d’azzardo: giocare è il pensiero che occupa di più la mente del giocatore, gli altri interessi vengono meno e progressivamente il gioco d’azzardo acquista un valore assoluto.

L’impulsività a sua volta può essere ridotta  a quattro elementi di base, molto simili a quelli sopra elencati:

  • Eccessiva sensibilità alle potenziali ricompense e desiderio di un rinforzo immediato. Ciò può spiegare il chasing del giocatore: gettarsi nell’immediato tentativo di recuperare il denaro perduto significa essere molto sensibili alle ricompense e desiderare un rinforzo immediato.
  • Tendenza a rispondere impetuosamente senza riflettere sulle conseguenze. Tale caratteristica è pressoché identica a quella riportata al punto 3: il giocatore non si preoccupa delle conseguenze delle proprie azioni. Anche il pensiero fisso sul gioco può essere ricondotto a questo punto, dato che il soggetto focalizza la propria attenzione sull’immediato per avere il rinforzo.
  • Insensibilità verso la minaccia di punizioni (o non-rinforzi), che può essere legata al punto precedente: il giocatore trascura le conseguenze del suo comportamento al punto da non preoccuparsi delle ripercussioni negative che dovrà subire.
  • Difetti nel controllo inibitorio che portano la persona a mettere in pratica il comportamento nonostante i rischi e le cattive conseguenze, questo spiega la perseveranza nel gioco di fronte sia alle sconfitte che ai successi.

Il confronto tra questi due gruppi di caratteristiche portano ovviamente Vitaro et al. (1999) alla conclusione che il gioco d’azzardo è una manifestazione del comportamento impulsivo. Su tali basi essi ipotizzano che l’impulsività sia un fattore predisponente l’esordio del gioco d’azzardo patologico, per dimostrarlo conducono una ricerca longitudinale su dei ragazzi: i risultati indicano che coloro che nella preadolescenza presentavano alti punteggi d’impulsività sono sei volte più a rischio degli altri di diventare giocatori problematici.

Questa ricerca non chiarisce però se l’impulsività sia un tratto isolato della personalità del giocatore oppure parte di un disturbo più ampio. Blaszczynski, Steel e McConaghy (1997) forniscono il loro contributo attraverso uno studio sul rapporto tra l’impulsività, il disturbo di personalità antisociale e il gioco d’azzardo patologico su un campione di soggetti in trattamento. Essi individuano un tipo di giocatore detto “impulsivo antisociale”, nel senso che presenta una personalità antisociale con tutti i correlati comportamentali e psicopatologici compresa una scarsa capacità di controllo degli impulsi, misurata con l’Eysenck Impulsivity Scale. L’impulsività risulta pertanto una dimensione sottostante ad un disturbo di personalità antisociale che predispone alla manifestazione di comportamenti maladattivi tra cui il gioco d’azzardo patologico. Questo è possibile se si considera che lo stesso Blaszczynski, in uno studio condotto nel 1994 insieme a McConaghy, aveva trovato un sottogruppo (15%) di giocatori patologici che rispondevano ai criteri diagnostici del disturbo antisociale, pur non essendo riuscito ad attribuire alla coesistenza delle due patologie il ruolo di causa dei crimini commessi.

Ancora Steel e Blaszczynski (1998) confermano i risultati a cui erano giunti nella ricerca precedente: l’impulsività media la gravità del comportamento di gioco, i soggetti che riportano punteggi più alti nella scala dell’impulsività di Eysenck, presentano anche una maggiore severità nel disturbo di gioco d’azzardo patologico. Inoltre viene anche ribadito il concetto di “impulsivo antisociale” come costrutto multifattoriale dato che, oltre alla presenza di tratti impulsivi e antisociali si ritrovano correlazioni positive con i disturbi di personalità narcisistica, borderline, dipendente, evitante e aggressiva-passiva.

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Gioco d’azzardo e patologia: dal social gambler al giocatore patologico

Il gioco d’azzardo è stato per molti anni un fenomeno poco studiato e comunque di scarso interesse per la psicologia. La competenza in materia di gioco d’azzardo è stata prima della religione, che ne ha sottolineato il carattere peccaminoso, poi è passata sotto il dominio del diritto, il quale ne ha messo in luce la caratteristica di illegalità.

I primi segni di interessamento a tale fenomeno da parte della psicologia e della medicina si intravedono con Kraepelin, che parla di “mania del gioco d’azzardo”.

Nel 1898 Gerolamo Caramanna distingue tre tipi di giocatori: quelli occasionali e di professione, mossi dal desiderio di guadagnare denaro, e quelli per passione, spinti da un istinto irresistibile.

In seguito è Freud che nel suo saggio Dostoevskij e il parricidio (1928), riprende il discorso sul gioco d’azzardo, aprendo così il campo ad altri psicoanalisti come Bergler.

Nel 1980 il gioco d’azzardo viene inserito dall’American Psychiatric Association nel DSM III: questo evento segna il suo riconoscimento come una vera e propria malattia mentale.

Come possiamo notare da questo breve excursus, il gioco d’azzardo non è mai stato preso in considerazione nella sua complessità, ma fino ad oggi se n’è preso in considerazione solo un aspetto alla volta. Dall’inserimento nel DSM per esempio, si sono moltiplicate le ricerche sul giocatore d’azzardo patologico, ma si è lasciato un po’ in disparte lo studio del giocatore sociale, cosiddetto social gambler.

Scorrendo i vari articoli sul gioco d’azzardo si trovano accenni al social gambler, ma spesso solo nel contesto di un confronto con il giocatore patologico, che rappresenta il fulcro della ricerca. Guerreschi (2000) suddivide i giocatori in sei categorie lungo un continuum che va dal giocare per divertirsi e passare il tempo, al giocare spinti da un impulso che non si riesce a controllare (vedi tab. 2.1), ma è a quest’ultima categoria che dedica la sua attenzione.

Bolen e Boyd (1968) nel loro articolo Gambling and the Gambler distinguono il pathological gambler dal normal gambler, utilizzando i concetti psicoanalitici di ‘colpa’ e ‘desiderio inconscio di perdere: il giocatore patologico è spinto da componenti aggressive e libidiche inconsce, il gioco rappresenta la soddisfazione di tali istinti proibiti, perciò genera sentimenti di colpa. Per estinguerli il giocatore continua a giocare desiderando inconsciamente di perdere per essere punito.

Il normal gambler invece è motivato un semplice desiderio di divertimento e rilassamento, perciò nutre sia consciamente che inconsciamente la speranza di vincere ed è in grado di smettere di giocare quando vuole.

Francisco Alonso-Fernandez fa’ anch’egli una classificazione dei giocatori: Il giocatore sociale è spinto da “spirito ricreativo” e mantiene un controllo tale per cui il gioco non interferisce nel funzionamento normale della sua vita, il giocatore problematico invece ricorre a qualsiasi mezzo pur di vincere dato che non accetta le perdite e a volte può anche reagirvi in modo violento. Per il giocatore patologico leggero il gioco è il sintomo di una patologia sottostante, come può essere per esempio uno stato depressivo. Infine il giocatore dipendente ha sviluppato una vera e propria dipendenza nei confronti di questa attività, perciò eventuali fenomeni di comorbilità sono solitamente una conseguenza di questa dipendenza primaria (Alonso-Fernandez, 1996).

Pensando al gioco d’azzardo salta subito alla mente  Dostoevskij, che nel suo romanzo Il giocatore (1866) descrive perfettamente la figura del pathological gambler, essendolo stato lui stesso: “M’invase una terribile sete di rischio. Forse, passando attraverso tante sensazioni, l’anima non se ne sazia, fino allo spossamento definitivo (…): Provavo solo una certa tremenda voluttà, di riuscita, di vittoria, di potenza, non so come esprimermi” (ibidem, pag. 162-163).

Come si capisce da questa citazione il gioco d’azzardo patologico è un’esperienza travolgente, vissuta dai giocatori come la possessione della loro anima da parte di un demone, ma a livelli non patologici, il gioco d’azzardo è un’attività socialmente accettata e rintracciabile in quasi tutte le culture.

Classificazione dei giocatori d’azzardo operata da Guerreschi
 1.      Giocatori d’azione con sindrome da dipendenza: hanno perso il controllo sul loro modo di giocare. Per essi, giocare d’azzardo è la cosa più importante nella vita, l’unica cosa che li mantiene in “azione”. Il gioco d’azzardo compulsivo è una dipendenza progressiva che abbraccia tutti gli aspetti della vita del giocatore. Mentre continua a giocare, la sua famiglia, i suoi amici ed il suo lavoro vengono influenzati negativamente dalla sua attività di gioco. Il giocatore compulsivo non può smettere di giocare, indipendentemente da quanto lo desideri o da quanto duramente ci provi.
2.      Giocatori per fuga con sindrome da dipendenza: giocano per trovare alleviamento alle sensazioni di ansietà, depressione, rabbia, noia o solitudine. Usano il gioco d’azzardo per sfuggire da crisi o difficoltà. Il gioco provoca un effetto analgesico invece di una risposta euforica.
3.      Giocatori sociali costanti: il gioco d’azzardo è la fonte principale di relax e divertimento, sebbene questi individui mettano il gioco in secondo piano rispetto alla famiglia e al lavoro. I giocatori sociali costanti mantengono ancora il controllo sulle loro attività di gioco.
4.      Giocatori sociali adeguati: giocano per passatempo, per socializzare e per divertirsi: Per essi giocare d’azzardo può essere una distrazione o una forma di relax. Il gioco non interferisce con le obbligazioni familiari, sociali o lavorative. A questa categoria di giocatori appartiene la maggioranza della popolazione adulta.
5.      Giocatori antisociali: sono giocatori antisociali coloro che si servono del gioco d’azzardo per ottenere un guadagno in maniera illegale.
6.      Giocatori professionisti non-patologici: si mantengono giocando d’azzardo e considerano il gioco d’azzardo una professione.

 

Il gioco come “oasi di gioia” 

Caillois (1958) definisce il gioco come un’attività: 

  • libera, a cui il giocatore non può essere obbligato, ma che sceglie liberamente;
  • separata dalla realtà quotidiana;
  • incerta perché il giocatore possiede la libertà di inventare, senza determinare anticipatamente svolgimento e risultato;
  • improduttiva perché non crea ricchezza né altri elementi nuovi, al massimo la ricchezza viene ridistribuita in maniera diversa tra i partecipanti;
  • regolata, dato che si creano delle leggi nell’ambito dell’esperienza ludica;
  • fittizia, cioè accompagnata dalla consapevolezza di essere qualcosa di diverso dalla vita reale.

L’autore distingue quattro tipi di giochi: quelli di agon, caratterizzati dalla competizione e dal piacere di risultare il migliore; quelli di alea,  antitetici ai primi, in cui ci si affida totalmente alla fortuna aspettando passivamente il risultato; i giochi di mimictry, il cui piacere risiede nel far finta di esser qualcun’ altro o qualcos’altro, come nel teatro ed infine i giochi di ilinx, di vertigine, attraverso i quali si cercano forti sensazioni, per esempio le montagne russe.

I giochi d’azzardo vengono classificati nella categoria dell’alea, che, dice Caillois, “nega il lavoro, la pazienza, la destrezza, la qualificazione (…) è avversità totale o fortuna assoluta” (ibidem, pag.34). L’autore considera i giochi d’azzardo i “giochi umani per antonomasia” dato che gli animali, pur conoscendo giochi di competizione, immaginazione e vertigine, non sono capaci di pensare ad un’entità superiore come la fortuna alla quale affidarsi.

Quindi, una volta riconosciuta l’esistenza e l’importanza del gioco d’azzardo a livello sociale, possiamo chiederci perché l’uomo è spinto a giocare, seppure occasionalmente. Imbucci (1997) risponde che con la schedina si compra un po’ di illusione e di speranza, che giocarla è una forma di svago e divertimento per la maggioranza delle persone, ma anche un modo per vivere delle emozioni. Lavanco e Varveri (2001), proprio per indagare la dimensione psicosociale del gioco d’azzardo, conducono una ricerca empirica su dei giocatori abituali nel territorio siciliano. Essi si servono di due strumenti, un questionario appositamente costruito per avere un’immagine il più possibile esauriente di ogni giocatore e la scala I – E di Rotter per stabilire il locus of control, ovvero al tendenza dei giocatori ad attribuire le cause di successi e insuccessi a fattori esterni (fortuna) oppure esterni (competenza).

I risultati della ricerca hanno innanzi tutto permesso di dividere i giocatori sociali in tre categorie:

  • I giocatori che per vincere fanno affidamento sulla propria competenza, come gli scommettitori alle corse dei cavalli, i quali ritengono necessaria una certa dose di esperienza e abilità per azzeccare un pronostico;
  • Quelli che si affidano totalmente alla fortuna, come nel gioco del Lotto;
  • I giocatori che contano su ambedue le componenti, i quali ritengono che per ottenere un risultato positivo occorre una miscela di competenza e di fortuna. Un esempio tipico si ha nel Totocalcio, uno dei giochi più accettato a livello sociale e ritenuto meno rischioso nell’ideale collettivo.

Rappresentando perciò gli scommettitori al Totocalcio i giocatori sociali per eccellenza, gli autori hanno deciso di restringere il campione solamente a questa categoria. Essi sostengono: di non avere mai avuto problemi derivanti dal gioco né nei rapporti sociali (88%), né di tipo economico (84%). In seguito a perdite consistenti, per giocare o pagare un debito non sono ricorsi a chiedere un prestito (81%): solo il 5% dichiara di aver avuto problemi economici e sociali causati dal gioco.

I soggetti della ricerca ritengono che essenzialmente giocare è: un piacere (61%), un’abitudine settimanale (19%), un modo per seguire il gruppo (7%). Il gioco è anche inteso come vizio (12%) e una necessità, ma solo dal 2% del campione. Possiamo quindi dedurre che in linea generale il gioco, per il giocatore sociale rappresenta uno spazio altro, rispetto alla vita reale. Si gioca più che mai per tentare di migliorare la qualità della stessa, tant’è vero che il 37% dei soggetti intervistati, in caso di vincita consistente, farebbe investimenti economici, il 27% migliorerebbe il tenore di vita, il 12% spenderebbe il denaro in viaggi, il 5% in automobili od oggetti di lusso, l’1% in beneficenza, mentre solo il 6% rigiocherebbe la somma vinta per incrementarla.

Si può affermare che il giocatore sociale ottiene attraverso il gioco una sorta di “fuga psichica” dalla realtà , un modo per uscire dalla routine, uno “spazio magico” (Huizinga, 1938) in cui può dare sfogo alla fantasia ed immaginare se stesso in diverse situazioni di vita.

La carriera del giocatore d’azzardo

Il giocatore sociale può diventare patologico quando non riesce più a controllare il proprio comportamento di gioco ed inizia a subire danni a livello economico, psicologico, relazionale e lavorativo. Il passaggio è progressivo, si tratta di un processo messo in moto dall’interazione di vari elementi, per questo è utile a scopo preventivo individuare i fattori di rischio, in grado di facilitare l’insorgenza del fenomeno (Lavanco, 2001). Questo autore, grazie alla ricerca citata nel paragrafo precedente, individua un potenziale fattore di rischio: il rapporto tra competenza e fortuna. Egli sostiene che la tendenza ad affidarsi a vittorie fortuite per attuare un cambiamento, negando il valore del lavoro e del merito può agevolare il cammino di un giocatore sociale verso un esito patologico.

Ferma restando tale visione processuale, ogni autore si esprime seguendo il proprio orientamento.

Walters (1994) per esempio, elabora una teoria dello “stile di vita” del giocatore secondo l’ottica cognitivista. Lo stile di vita sarebbe determinato dall’interazione tra l’individuo e il suo ambiente, condizioni interne ed esterne al soggetto rappresenterebbero fattori di rischio o fattori protettivi, a seconda della loro funzionalità per il suo benessere. Egli è in grado di effettuare scelte responsabili che orientano la sua esistenza, ma in presenza di questi elementi disturbanti lo spettro delle possibilità si restringe. Per esempio, una bassa autostima favorisce in un individuo la percezione di se stesso come inadeguato, così probabilmente sarà più incline a comportamenti disadattivi, come il gioco d’azzardo. Altri fattori rischiosi secondo Walters possono essere il tipo di attaccamento sicuro o insicuro, le relazioni instaurate durante il corso della vita e l’immagine di sé stesso che il soggetto ne ricava, il fatto di essere cresciuto a stretto contatto con altri giocatori abituali, etc. Una volta instaurata la dipendenza da gioco, il giocatore ricorre a meccanismi cognitivi e razionalizzazioni che gli permettono di giustificare la propria condotta e salvare l’autostima.

Lesieur (1979) sostiene che la “carriera” di un giocatore d’azzardo può essere vista come una spirale: essa si articola in diversi gradini che lo portano ad un sempre più ampio coinvolgimento con l’attività di gioco. Come un medico od un avvocato, il giocatore percorre la sua scalata verso il successo, ma il successo in questo caso è il totale fallimento: diventare dipendente dal gioco.

L’autore succitato introduce il concetto di chasing, la rincorsa della perdita: più il giocatore perde, più aumenta l’attività ludica e l’ammontare della scommessa, nell’illusione di recuperare con una grande vincita il denaro perduto. Questo è il meccanismo che conduce progressivamente alla dipendenza e che,  sostiene Lesieur, distingue il giocatore patologico da quello sociale dato che soltanto il primo possiede questa filosofia. In accordo con Walters (1994), anch’egli nota che quando il giocatore si trova completamente intrappolato tra debiti, menzogne e problemi familiari, utilizza giustificazioni per coprire a se stesso la realtà, soprattutto per negare quei comportamenti lesivi della sua autostima come il rubare, che viene perciò etichettato come “prendere in prestito”.

Infine è d’obbligo citare un contributo che possiamo definire essenziale per la nascita dell’attuale idea di dipendenza da gioco come processo: lo schema di Custer (1982), nel quale vengono rappresentate le fasi che attraversa un giocatore d’azzardo patologico nell’instaurarsi della malattia.

chema di Custer - Giocatore d'azzardo Patologico
chema di Custer – Giocatore d’azzardo Patologico

Nella prima fase, la “fase vincente”, il gioco è occasionale, si gioca per divertirsi e le vincite sono frequenti. Il giocatore sente di guadagnare soldi facilmente, così aumenta il tempo e il denaro impiegato nelle scommesse. Spesso si ha una grossa vincita durante questa fase che, secondo l’autore dura dai tre ai cinque anni.

Ad essa segue la “fase perdente”, con episodi di perdite, gioco solitario e progressivo incremento delle scommesse per recuperare ciò che si è perso. E’ qui che inizia la rincorsa delle perdite che secondo Lesieur (1979), innesca il meccanismo della dipendenza. Subentrano a questo punto i debiti, le menzogne e il ricorso ai prestiti, in attesa della miracolosa vincita che consentirà di regolare i conti. Ma con l’arrivo di questa vincita il giocatore, invece di fermarsi continua a giocare, avendo ritrovato la fiducia in se stesso e nel favore della fortuna.

Intrappolato in questo meccanismo, giunge alla “fase della disperazione”, in cui perde il controllo degli eventi e arriva anche a commettere azioni illegali per procurarsi i soldi. I reati più frequenti sono la falsificazione di assegni, la frode fiscale, l’appropriazione indebita e l’emissione di assegni a vuoto. Il giocatore è ancora fiducioso che tanto prima o poi arriverà la grande vincita a salvarlo, ma ormai nessuno crede più alle sue bugie e la sua famiglia va in crisi, siamo alla “fase della perdita della speranza”.

A questo punto il giocatore si trova sommerso da problemi di tipo legale, lavorativo e relazionale tanto che spesso insorgono anche depressione, vari sintomi correlati allo stress e a volte, sostiene Custer, vere e proprie crisi d’astinenza.

Quando il soggetto decide di chiedere aiuto si entra nella “fase critica”, iniziando un percorso terapeutico che attraverso la “fase della ricostruzione” lo condurrà a quella “della crescita”.

Osservando lo schema di Custer noteremo che la freccia in salita che indica la “fase di crescita” arriva più in alto rispetto al punto di partenza, costituito dalla freccia in discesa. Ciò significa che il recupero, secondo l’autore deve passare attraverso una crescita della persona nella sua totalità, un ampliamento della coscienza che porterà l’individuo ad un benessere e ad una consapevolezza di sé mai raggiunti prima.

Tale visione processuale dell’instaurarsi della patologia del gioco d’azzardo è interessante perché mette in luce l’interazione tra fattori ambientali ed individuali nell’eziologia e nel mantenimento del comportamento di gioco. Ovviamente non si deve cadere in errore considerando il passaggio da una fase all’altra come obbligato e necessariamente determinato, è piuttosto l’incontro tra un particolare individuo ed una particolare situazione in un dato momento, a generare un risultato unico e comprensibile solo all’interno di quel contesto specifico.

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Nuove dipendenze

Le Nuove Forme di Dipendenza: shopping, gioco d’azzardo, Utilizzo di Internet

Le nuove forme di dipendenza, cosiddette “New Addictions” dalla letteratura internazionale, sono delle dipendenze in cui non è implicato il coinvolgimento di una sostanza chimica, ma di una o più attività lecite e socialmente riconosciute come lo shopping, il gioco d’azzardo, l’utilizzo di Internet, il lavoro, il sesso, le relazioni sentimentali.

Gioco d'azzardo
Gioco d’azzardo

Tutti questi comportamenti, seppur considerati normali abitudini della vita quotidiana, possono diventare, per alcuni individui, delle vere e proprie dipendenze, che sconvolgono ed invalidano l’esistenza del soggetto stesso e del suo sistema di relazioni. Le dipendenze comportamentali, infatti, si manifestano nell’urgente bisogno di dover praticare un’attività, nella consapevolezza che a lungo andare condurrà all’autodistruzione.

Shopping Nuova Forma di Dipendenza
Shopping Nuova Forma di Dipendenza

Perciò, anche se non vi è assunzione di sostanze chimiche, il quadro fenomenologico è molto simile a quello della tossicodipendenza e dell’alcolismo. Spesso le “New Addictions” si combinano tra loro, o si accompagnano alle dipendenze da sostanze; molto frequente è, per esempio, l’associazione di Gioco d’Azzardo Patologico e Dipendenza dall’Alcol. Si riscontrano, inoltre, passaggi da una dipendenza ad un’altra, la quale diventa sostitutiva di quella precedente. Per esempio, un soggetto che riesce ad uscire dalla tossicodipendenza, cessando l’uso delle droghe, ma che sviluppa un’incontrollabile bisogno di giocare d’azzardo, non è realmente guarito, ma ha solamente spostato sul comportamento di gioco l’oggetto della propria dipendenza.

Nuove forme di dipendenza Internet
Dipendenza da Internet

Nei successivi articoli, verra’ spiegato il concetto di dipendenza e di “New Addictions”.

Sarà fatto un accenno alla Dipendenza dagli Acquisti: in una società moderna che incita al consumo e valorizza questo tipo di comportamento, le “consumopatie” stanno aumentando in maniera preoccupante.

Di seguito verranno approfondite la Dipendenza da Internet ed il Gioco d’Azzardo Patologico. Entrambe queste due dipendenze hanno, di recente, catturato l’attenzione sia della letteratura scientifica, sia dei media, in maniera decisamente più massiccia rispetto alle altre nuove forme di dipendenza.

Trattando questi fenomeni riusciremo a svelare e comprendere alcuni aspetti di una realtà così vicina, eppure così nascosta ed invisibile.